26 luglio 2013

Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, pensa.

E pensa a quante altre volte abbia già pensato la medesima frase. Mentre per la seconda volta indica una tazza poggiata sopra la macchina del caffè.

La indica con un dito di una mano diafana e affusolata, che sbuca fuori da una manica scura troppo larga. Le unghie curate, limate, tutte della medesima lunghezza, quasi misurata con uno strumento di precisione.

Il barista dall’altro lato del bancone segue con lo sguardo la linea ideale tracciata da quel dito sottile.

– Ho capito: la tazza. Ma che ci devo mettere dentro? –

Ancora, per la seconda volta, la stessa mano si muove dall’alto verso il basso come a reggere un filo immaginario. – Un tè? E’ un tè che desidera? – .

Il cranio rasato dall’altro lato del bancone fa un cenno di assenso. Uno solo. E lo pensa nuovamente: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

– Come lo preferisce il tè? Normale, verde, con il limone? –  Il tono è frettoloso e annoiato.

La solita mano volteggia casualmente, spostando l’aria.

– E’ uguale? Va bene -.

Il cranio rasato osserva il barista che si muove a scatti dietro il bancone. La camicia a quadri grossi turchesi e neri, aperta su una maglietta nera. I capelli lunghi in modo quasi casuale e un po’ unticci. Le sopracciglia troppo folte. Si domanda se sia il proprietario o un dipendente e quale sia il motivo del suo essere così seccato e malcelatamente sgarbato. Fosse un dipendente potrebbe anche essere comprensibile o irrilevante, ma se fosse il proprietario sarebbe sciocco. Non si investe in un esercizio pubblico per poi allontanarne i clienti con un atteggiamento poco invitante. Forse è solo una brutta serata. Forse è troppo tardi e, giunta l’ora della chiusura, un tè non è un gran guadagno, solo una seccatura. Forse è il cliente che non gli piace.

Anche il barista guarda il cranio rasato. Un po’ di sottecchi, quasi per non farsi scoprire. Il viso imberbe, pallido e magro. La pelle liscia, i lineamenti delicati. Gli occhi, chiari, ma con le luci troppo fioche non riesce a comprenderne realmente il colore. Verde forse? Le ciglia e le sopracciglia chiarissime. Pensa che a truccarlo e a ficcargli una parrucca lunga, magari con la frangia, sembrerebbe una donna. Pure un po’ fregna, con quella boccuccia delicata. Gli viene da ridere e si trattiene.

Lì nel suo locale ne ha viste di tutti i colori. E’ normale con il suo lavoro. Gente che va, gente che viene. Clienti abituali, giovani, vecchi, ubriaconi, mignotte, gruppi di studenti, coppiette, matti. Tutto.

Ma un monaco no. Un monaco mai. E per giunta pure muto. Quello non se lo sarebbe mai immaginato. E in realtà, a ben vedere, non gliene frega un cazzo. E’ solo un attimo di curiosità che svanisce, riassorbito dai pensieri e dalle preoccupazioni del momento. Anzi, è anche seccato, perché con quel tè non ci guadagna quasi nulla e francamente avrebbe preferito un beone, almeno per una birra, un amaro, qualcosa di più succulento economicamente. Si dimentica del monaco e pensa alla sua donna che lo sta aspettando a casa, con quel solito trucco un po’ sfatto e le labbra piegate all’ingiù. La devo mollare, pensa. Prima o poi la mollo e vaffanculo. Lei e quelle sue chiappe sempre poggiate sui cuscini. Lei e le sue parole rabbiose. Lei e le sue bugie stupide. O la mollo o la strangolo nel sonno.

Il monaco ha finalmente ricevuto il suo tè. Lascia poggiati sul bancone il piattino e il cucchiaino e con la tazza bollente sorretta fra le dita, si volta per osservare il luogo in cui si trova.

Non è molto grande, ma c’è abbastanza spazio. Per cosa? In realtà non lo saprebbe dire. C’è abbastanza spazio. E basta. I tavoli sono di legno, un po’ butterati di scritte intagliate. Qualcuno conserva la macchia circolare d’un bicchiere. Molti tavoli sono allineati lungo la parete di strada. Metà legno e metà finestra. Adesivi di marche di birre un po’ scrostati e scoloriti sui vetri vagamente opachi. C’è una musica di sottofondo, una radio. Ogni tanto speakers parlano ma il monaco non sente davvero e quella musica non la conosce. L’aria ha un odore di legno vecchio e di qualcosa di schiumoso e soffocante. Si sente il saio pesante. Forse perché è una notte calda. Fuori soffia il vento del sud. Sì, il saio forse è pesante, ma, in fondo, non lo sente davvero, se ci pensa per bene.

Sulla parete di fondo c’è una riproduzione di un vecchio juke box anni ’50. Si avvicina a guardarlo mentre il tea si raffredda. Le luci rosa e blu del juke box gli illuminano il volto. Di fianco a lui, seduta all’ultimo tavolo, c’è una coppia. Studenti forse. Sono gli unici avventori presenti con due birre ormai finite. La ragazza, dopo aver spudoratamente osservato il volto del monaco blu e rosa, sussurra ridacchiando al ragazzo – Guarda com’è strano tutto rosa così! – – E zitta che ti può sentire! -.

Il monaco si volta a guardarli, non si capisce se abbia sentito la frase. Il volto è ugualmente gentile, anche se non sorride. Ha un modo di sbattere le palpebre lento. Dolce e riflessivo, quasi. O languido e stanco.

Con la mano libera, rivolto ai ragazzi, indica la tazza nell’altra mano e poi il loro tavolo. La ragazza, una biondina slavata con qualche segno di acne sulle guance, come un residuato bellico di una guerra giovanile, comprende al volo. – Sì si, la poggi pure, non si preoccupi! -.

Il monaco accenna un piccolo sorriso che è quasi una curva corrugata delle labbra e poggia la tazza.

Si fruga nelle tasche enormi del saio e tira fuori una moneta. La infila nel juke box e pigia dei tasti. Dopo qualche attimo, dalla magia dei pulsanti e dei meccanismi, si sprigiona una musica. Un po’ triste. Il monaco riprende la tazza dal tavolo dei ragazzi e fa un piccolo cenno di ringraziamento con quel suo cranio rasato.

– Che è ‘sta roba? – sussurra il ragazzotto spalle larghe e faccia appuntita alla biondina. – E’ una canzone vecchia che piace a mia madre. Si chiama… ‘spetta… una cosa con le foto di mezzo… Sì ecco, “Pictures of you”, però non mi ricordo di chi è -.

Il monaco cammina lento per il locale sorseggiando il tè. Il barista intanto è al cellulare e parla animatamente con toni di voce alternati. Un po’ urla, un po’ sussurra, camminando su e giù dietro al bancone. Si passa una mano tra i capelli unticci e li tiene un po’ così all’indietro. – Sì ti ho detto di sì, cazzo! Non puoi rompere i coglioni continuamente sempre con la stessa storia! – Poi parla troppo piano e non si capisce. Poi gli torna di nuovo la voce da quella bocca che prima sembrava masticare il silenzio.

–  E dai non puoi fare così ogni sera ogni sera… E dai amore…. E va bene, va bene…Allora vaffanculo! – E di nuovo torna a muovere le labbra come un pesce nell’acqua.

La canzone è quasi a metà, gli studenti ridono di qualcosa tra loro e la porta d’ingresso del locale si apre per lasciar entrare un’altra coppia.

Un uomo grassoccio in completo scuro. Di taglio costoso, ma buttato male sulle spalle e troppo stretto per lui. La cravatta, forse nera, è storta sulla camicia bianca. Ha il viso gonfio e rossastro, con le borse sotto gli occhi piccoli e troppo vicini al naso. Ha un ciuffetto di capelli più o meno rossicci al centro della testa, tirati indietro, radi. E’ sudato.

La donna della coppia è bionda. Di poco più alta dell’uomo e magra. Indossa un tubino blu elettrico e sandali-gioiello in tono, con tacchi altissimi. Potrebbe anche essere elegante se non fosse sgraziata nei movimenti. Se i suoi capelli non fossero gialli come le pannocchie mature. Se la sua eccessiva abbronzatura non avesse una vaga sfumatura d’arancione.

Entrano nel locale parlando tra loro. L’uomo la tiene per un braccio, forse perché lei è un po’ alticcia e le parla nell’orecchio con la voce bassissima. Lei scoppia in una risata chiassosa che comincia con una specie di gorgoglio per terminare in una nota stridula.

Si avvicinano al bancone, mentre il monaco sta bevendo gli ultimi sorsi del suo tè con lentezza.

Il barista termina frettolosamente la telefonata – Ho gente. Devo andare – e con la stessa espressione nervosa del viso si rivolge ai nuovi arrivati – Prego, ditemi –

– Due caffè – L’uomo ha la voce roca e bassa degli accaniti fumatori.

Il barista pensa che un tè e due caffè non valgono la sua permanenza in quel luogo che comincia ad odiare, come il suo lavoro del resto. Se solo non ci fosse quella stronza a casa a blaterare forse andrebbe meglio. Poggia i caffè sui piattini sul bancone.

Il monaco guarda l’uomo e la donna che parlottano tra risatine e sussurri. Lui è davvero eccessivamente sudato. Quasi gli porgerebbe un fazzoletto.

Gli studenti sorridono ad un mondo che probabilmente ancora non conoscono.

La canzone è finita.

L’uomo poggia sul bancone la tazzina vuota e degli spiccioli – Arrivederci – Riprende la donna sotto braccio per uscire.

Il barista prende il cellulare, probabilmente per proseguire la telefonata di prima.

Il monaco ha finito il suo tè e dalla tasca prende una moneta per lasciarla sul bancone.

– Ancora con questa storia? – Il barista ha un tono poco più accomodante rispetto alla precedente conversazione, forse perché è solo l’inizio di un nuovo temporale. Con la coda dell’occhio controlla la moneta del monaco che si avvia verso la porta.

Nessuno saluta nessuno.

Il monaco è sulla strada.

L’uomo e la donna hanno svoltato per la stradina laterale.

Il monaco prende la stessa via.

L’uomo e la donna camminano lentamente fumando entrambi una sigaretta. Lei sembra un trampoliere seriamente instabile su quei tacchi. Si sentono anche a distanza i suoi gorgoglii con l’acuto finale.

Il monaco li segue con il passo poco più accelerato. Li raggiunge. E’ vicino.

Poi si ferma. Infila la mano destra nella manica sinistra del saio. Quelle maniche così larghe.

Estrae una Beretta 9 millimetri, una Parabellum con silenziatore.

E spara. Due colpi all’uomo, tra le scapole ed alla testa. Un colpo solo alla donna che nel frattempo è riuscita a voltarsi. In fronte.

Le sigarette giacciono a terra fumanti. Accanto ai due corpi.

Il monaco controlla la strada. Controlla rapidamente che quella carne afflosciata sull’asfalto sia ormai solo il simulacro di una vita immeritata.

Poi riprende il suo cammino lungo la stessa strada.

Il vento è caldo, il saio è pesante. Il cielo è coperto da nuvole biancastre e grigie, con un velo rossastro cupo.

Il monaco sente due gocce solitarie giungere dall’alto sul suo cranio rasato. Solleva il cappuccio del saio che gli copre anche parte del volto.

Da una tasca estrae un rettangolo bianco. Con un inchiostro blu ormai sbiadito c’è scritto: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E una data: 26 luglio 2013.

Volta il rettangolo. E’ una fotografia consumata che ritrae un ragazzo a torso nudo. Tatuaggi sul corpo e piercing alle orecchie. E gli occhi più verdi del mondo. Anche se la foto è in bianco e nero.

Il monaco sorride un po’ triste . Socchiude appena le labbra e comincia a cantare lieve.

I’ve been looking so long at these pictures of you  that I almost believe that they’re real I’ve been living so long with my pictures of you that I almost believe that the pictures are all I can feel….

La donna dal cranio rasato canterà tutta la sua canzone. Fino alla fine.

5 risposte a “26 luglio 2013

  1. Pingback: tilla durieux

  2. bakanek0

    There was nothing in the world that I ever wanted more
    Than to feel you deep in my heart
    There was nothing in the world that I ever wanted more
    Than to never feel the breaking apart, my pictures of you

    Fuori uno!

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