Essere appese nude in casa di sconosciuti

Mi piaceva troppo questo titolo vagamente fuorviante per non usarlo.

Diversi anni fa, quando frequentavo un vasto gruppo di artisti eterogenei, la maggior parte dei quali alcolizzati e poveri in canna, ho posato come modella per alcuni fotografi, che della fotografia avevano fatto ragione di vita e professione.

Due di essi erano cinquantenni amici d’infanzia, caratterialmente e stilisticamente assolutamente diversi e, per lo più, tra loro, estremamente litigiosi. Li frequentavo sia separatamente, nelle loro abitazioni, di notte, sia assieme nel locale dove tutti gli artisti si radunavano e, qualche volta, invece, s’andava a cena insieme noi tre.  Io li ascoltavo con il cuore che mi scoppiava di piacere. Li ascoltavo litigare sino al più pesante turpiloquio sull’interpretazione di una poesia di Majakovskij o su quanto fossero perfette o poco meno che perfette le Variazioni Goldberg di Gould.

Uno di loro mi chiese gli occhi e la bocca. L’altro tutto il corpo.

La terza fotografa era una ragazza di poco più giovane di me, che allora avevo  circa 27 o 28 anni. Lei mi chiese  il corpo per un’intera notte, perchè solo di notte lavorava in studio. Durante quella notte facemmo circa 150 scatti, la maggior parte in bianco in nero, altri a colori, su pellicola che lei sviluppava e stampava personalmente.

Non so se abbiate mai posato per un pittore, scultore o fotografo.  Anche se nella fotografia il corpo non deve rimanere statico, ma, anzi, quanti più e diversi movimenti si compiono (a meno che non si voglia una specifica posa e solo quella) tanto più si evidenziano muscolature, pelle, nervi, ombre, luci e tutto ciò che serve a consentire al fotografo di avvicinarsi a ciò che desidera avere, posare per una notte intera è sfiancante da morire. Alla fine si è distrutti. Tutti e due, fotografo e modella.

Di quei 150 scatti ne ho ricevuti in dono 5.  Altri 3, scelti tra i 150, sono stati esposti qualche anno dopo dall’amica fotografa, ad una personale. Nei giorni dell’esposizione io mi trovavo in Finlandia e lì ho ricevuto l’sms della mia amica che mi annunciava di “essere stata venduta ad un uomo”. Mi chiese se volessi sapere come fosse, chi fosse. Non ho voluto sapere niente. Perchè mi faceva impazzire di piacere l’idea di essere appesa nuda in casa di uno sconosciuto. E, perchè, in realtà, so che, quella appesa nuda in casa dello sconosciuto, non sono io, ma la mia amica fotografa.

Quello che so è che quando si entra in un’opera, in un processo creativo altrui, si esce da sè e si entra a far parte di qualcun’altro. Meglio, si viene completamente attraversati dall’altro. Si diventa una materia plasmabile e plasmata, un prodotto altrui. Si viene toccati da dentro e trasformati in qualcosa di diverso.

E lo so perchè, oltre ad essere stata fotografata, sono stata anche composta e cantata in testo mediolatino per coro ed organo in una basilica e sono stata incisa, a mia totale insaputa, su cd da un cantautore.

E quando l’opera in cui si è stati trasformati viene a contatto con l’esterno, esposta, rappresentata, la sensazione è così terribilmente terribilmente intensa da non poter essere paragonata a null’altro.

Soprattutto quando, come in tutti questi casi, non si è trattato di opere dedicate a me o per me per qualche coinvolgimento sentimentale. Quella è una cosa diversa, piacevole, ma decisamente più piatta. Quello di cui io parlo è, invece, il coinvolgimento artistico che nasce non come progetto prestabilito (voglio fare una certa cosa, mi serve un’adeguata modella), ma come spunto, acme, origine del processo artistico (conosco questa persona, mi fa venire voglia di fare questa cosa).

Ed è ancora più elettrizzante per me, che sono completamente, totalmente, priva di creatività. Sterile come un ramo rinsecchito. Piatta come il Midwest.

E’ l’unico modo per esserci, lì, in mezzo a quel miracolo per me tanto misterioso.

Al termine dei lavori, dopo aver visionato le foto dei tre fotografi, in momenti e periodi diversi, ho nuovamente donato, con piacere e per il piacere, il mio corpo a ciascuno di essi, per una volta soltanto ciascuno.

Forse perchè quella è l’unica arte in cui sono davvero brava.

Ordine e caos

Ho sempre pensato che un animo inquieto necessitasse, per potersi placare, di un certo ordine interiore.

Per la verità non so se davvero sia stata io a pensarlo o se milioni di messaggi più o meno velati mi si siano insinuati dentro portandomi a certe conclusioni.

Oggi ho tentato di ricostruire, come fotogrammi, i momenti migliori della mia vita, per effettuare una sorta di verifica.

E non c’era nulla di ordinato in nessuno di quei fotogrammi.

L’ordine è ciò che tutti gli eventi infausti e dolorosi della mia vita mi hanno imposto perchè io potessi fronteggiarli.

Tutto ciò che ho riordinato è sempre stato il dolore. L’ho incasellato per controllarlo, per gestirlo, per sistemare tutti i pezzi. Tutto velocemente. Perchè non ho mai potuto avere il tempo di digerirlo, metabolizzarlo, lasciarlo sedimentare piano.

Il continuo stato di emergenza in cui ho vissuto mi ha sempre richiesto risoluzioni pronte e rapide. Ed io come un bravo soldatino ho eseguito.

Tutto velocemente e in perfetto ordine.

E’ assurdo, ma è come se non avessi mai avuto il tempo per poter soffrire e, così, non ho mai smesso di farlo.

Soffrire nel tempo libero.

Poi c’è la società che vuole che, crescendo, si diventi ordinati. Il lavoro (fa ridere pensarlo ora), la famiglia, i figli. E tutte le convenzioni possibili.

Ma oggi ci ho pensato intensamente, domandomi quando sia stata più felice o soddisfatta o piena di quella vita che mi straripa, che fuoriesce ovunque e che tento di contenere.

E tutto c’era in quei momenti, fuorchè ordine.

No. C’era ordine, ma era un ordine diverso da quello che comunemente potrebbe essere definito ordine.

C’era il mio ordine.

Sono stati tutti quei momenti in cui ho seguito le mie priorità. E le mie priorità non avevano niente a che vedere con l’ordine che l’esterno mi imponeva.

Erano talmente poco ordinate le mie piorità, talmente istintive, talmente coraggiose o folli, che, ora me lo sto ricordando,  mentre vivevo la mia vita, chi la osservava sgranava gli occhi stupefatto e io mi domandavo cosa ci fosse di tanto strano.

Adesso so, adesso capisco quegli occhi sgranati.  Perchè i miei occhi hanno finito per somigliare a quelli di chi mi osservava.

E’ vero, un animo inquieto ha bisogno di un ordine interiore. Ma deve essere il proprio ordine. E se quell’ordine è dato dal lasciar straripare senza contenzione, negli atti e nelle parole, tutta la vita e l’energia che da troppo tempo mi soffocano chiuse dentro, stringendomi la gola, allora è così che devo fare.

Perchè così non mi sono mai fatta male.

Caramelle e pensieri del mattino.

1.  La mamma mi ha insegnato a non accettare caramelle dagli sconosciuti. E se uno sconosciuto me ne offre e io rispondo: “Grazie, sei gentile, ma, sai,   prima di accettare caramelle da uno sconosciuto io preferisco capire perchè me ne offri e capire se sono di mio gusto” e quello si offende a morte, beh, forse c’è qualcosa che non va nell’offerta e non nel mio rifiuto.

 

2.  Oggi tanta tanta paura per la mia prova. Però ci si infila lo stesso l’armatura e si fa finta che va tutto bene, anche se c’è tutto un tremolio dentro e il desiderio di fuggire e rintanarsi in qualche angolo nascosto.

 

3.  Diomio, quanto mi trovo terribilmente noiosa. Anche lo specchio me lo ripete di continuo: “Sei noiosa!”.

Finalmente mi nomo in cinese!

Finalmente il mio nome cinese, che sarà PER SEMPRE, il mio nome cinese, e che comparirà su certi pezzettacci di carta, è pronto!

我的老师, che è una geniaccia 很开朗也非常热情, me l’ha azzeccato preciso preciso, che nemmeno io l’avrei potuto scegliere meglio.

Mi spiace non poterlo scrivere, ma posso descriverne il significato, omettendo il cognome. I miei due nomi (che 在中国 sono usati sia per maschietti che per femminucce) significano:

– the first one: persona dalla forte volontà e determinazione, eroe, ma è anche il nome di un fiore (devo capire quale ancora).

– the second one: anticamente era il legno più grande e forte che sosteneva le case ed oggi è utilizzato per indicare una persona tanto intelligente e talentuosa da costituire  l’asse portante di una famiglia o di una comunità.

Profondamente profondamente onorata da questa scelta, nonchè commossa e, cazzo, felice!

我很高兴, 谢谢!

Basta chiacchiere e distintivi.

Accadono ovunque in questi giorni, in questi momenti, eventi spiacevoli, piacevoli,  misteriosi o incomprensibili.

Potrei riflettere al riguardo per un prolungato lasso di tempo.

Ma perchè? Servirebbe a qualcosa? Cambierebbe qualcosa?  Conto io, forse, qualcosa? Ho una qualche rilevanza? Ne hanno le mie parole?

No. Decisamente no.

Domani ho una prova importante, per la quale ho trascurato la mia preparazione, perdendo la mia concentrazione, trascurando in tal modo me stessa.

Quindi, basta chiacchiere e distintivi.

Fatti, voglio solo ed unicamente fatti. Concreti. Rilevanti. Presenti.

Un istante fa una delle mie amiche ospiti in casa mia ieri sera mi ha testualmente scritto: “E’ stato bellissimo, per la prima volta mi sono sentita benissimo, senza aver paura di essere quella che sono, completamente libera”.

Questo per me è un fatto. Questo è esattamente ciò che desidero provino le persone in mia compagnia. Questo mi ha fornito la risposta ad una delle domande che mi ponevo ieri sera.

Fatti ed autenticità.

Che il resto si fotta.

 

I luoghi che ti salvano

Lì nel luogo in cui vado un paio di giorni alla settimana c’è un gran via vai di gente di ogni tipo.

E’ un posto che amo immensamente e che ha la capacità (rara, rarissima qui a Roma) di farmi stare bene e farmi sentire a mio agio.

Il via vai è composto da un eterogeneo miscuglio di studenti, immigrati e, in misura nettamente inferiore, persone come me.

Stanno lì tutti insieme e per lo più non interagiscono fra loro: gli studenti pensano ai cazzi loro, gli immigrati (per lo più del Nord Africa e Medio Oriente, ma anche qualcuno dell’Est) stanno fra loro a parlare, a bere una birra, a fumare o vi transitato soltanto, mentre quelli come me arrivano, fanno quello che devono fare e se ne vanno altrettanto rapidamente senza cagare nè gli uni nè gli altri.

Io, invece, arrivo sempre prima dell’orario in cui dovrei essere lì per potermi sedere su una panchinetta di pietra sempre lercia e appiccicosa delle bevande che, inevitabilmente, vi vengono rovesciate. Mi metto lì ad ascoltare musica, isolandomi acusticamente, e a fumare. E, spesso, attendo l’uscita della mia amica bibliotecaria, che un paio di volte mi ha fatto entrare nella “stanza segreta” per mostrarmi dei testi di qualche secolo fa, che a toccarli mi tremavano le mani e mi hanno trasformato immantinente in Peter Kien (che, tanto, quella è la fine che farò prima o poi). Ma io questa cosa della bibliotecaria non ve l’ho mai detta eh, che non si può.

Di solito, però, non riesco mai ad ascoltare prolungatamente la musica, perchè, dopo poco che sono lì, arriva sempre qualcuno a chiedermi una sigaretta.  Gli studenti chiedono, prendono e se ne vanno. Gli immigrati, invece, si fermano sempre per due chiacchiere e io ne sono molto felice.

La cosa che più mi piace è che mi fanno un sacco di domande, soprattutto sul perchè io mi trovi lì. Perchè non ho l’età degli studenti, sono italiana, ma me ne sto lì seduta a fumare da sola come fanno loro. Le loro domande, spesso personali, legittimano le mie ed è a quel punto che traggo il massimo del piacere. Perchè in questo modo vengo a conoscenza di tante storie, personali, belle, tristi e così piene, intense d’umanità che, finalmente, mi sento piena di ciò che da sempre vado cercando.

Un paio di settimane fa ho anche incontrato il tizio che sta sempre seduto sotto casa mia a chiedere soldi e che, oramai, conoscendomi, mi saluta ogni volta che passo con il suo: “Ciao amore, come va oggi? Tutto bene?”. A volte mi fermo a chiacchierare con lui, gli porto un cappuccino bollente, come piace a lui, gli offro sigarette.

Quando l’ho incontrato in quel posto, stava con un amico e appena mi ha vista mi ha abbracciata e baciata e ha detto all’amico che io sono una sua”cara amica”. Mi fa ridere perchè è sfrontato da morire con tutti quelli che gli passano accanto. Mi ha detto: “Beh dai, dammi la solita sigaretta amore, però stavolta il caffè te lo offro io e se non lo prendi mi offendo”. Così ho dovuto bere un caffè che non mi andava, ma preso alla macchinetta, che quello del bar interno costa troppo.

Ieri, invece, dopo aver pagato il dazio della solita sigaretta, ho conosciuto un afghano che mi ha chiesto di poter parlare in inglese perchè non capiva bene l’italiano. Mi ha raccontato di tutti i posti in cui è stato e ci siamo scambiati le relative impressioni sui luoghi in cui anche io sono stata. Parlava benissimo in inglese e mi ha detto di parlare perfettamente anche il norvegese e abbiamo riso insieme delle poche parole in suomi che conoscevamo. Gli ho chiesto per quale cazzo di motivo avesse scelto di venire in Italia, visto che è stato in posti migliori di questo. E mi ha risposto: “Non lo so, ma so che ho sbagliato”.

Domani tornerò in quel posto a bere ancora un po’ di quell’umanità che mi dà l’energia per sopravvivere alla tanto serrata, chiusa, perbenista, mediocrità che normalmente mi circonda.

 

 

Troppi pensieri stanotte

C’è un po’ troppa confusione qui dentro stanotte.

E’ una confusione diversa da quella cui sono abituata e che solitamente si manifesta come una velocissima successione di problematiche ed eventi e emozioni contrastanti che tendo a risistemare e ricollocare in tempi altrettanto brevi.

Stanotte, invece, è tutto molto più lento e ponderato. Ho il vago sospetto che la mescolanza d’alcolici e robetta chimica influisca in qualche modo sulla tempistica e sospetto che influenzerà anche la sintassi di queste righe (ma c’era pure sticazzi al riguardo).

Innanzitutto mi si mischiano le lingue come non mai. Il “solitamente” di poco fa continuavo a pensarlo in 普通话 e, cazzo, non mi veniva in italiano.

La serata è stata bella qui a casa con due amiche. Ci siamo divertite. Non è che ci si conosca da tanto tempo e così bene e ancora non capisco esattamente cosa trovino di così divertente in me. O, almeno, in alcuni miei modi di essere. Si schiantano dalle risate quando dico cose che per me hanno un tono normale. Cioè se ho una reazione che per me è normale ad un certo evento, loro spesso scoppiano a ridere. Forse è il mio modo di essere dissacrante o il fatto che minimizzi tutto. Non lo so, devo studiare meglio la questione. Però mi sono divertita, per questo ho dato seguito reiteratamente alla mescolanza chimica, senza che loro sospettassero, tanto sembro sempre normale, solo il mio cervello nota la differenza.

La seconda questione gira intorno alla circostanza che una persona, oggi, non sapendo niente di me, mi ha detto un paio di cosette al mio riguardo che non dovrebbero apparire così evidenti o, quantomeno, non lo sono comunemente (e “comunemente” in 普通话 è uguale a “solitamente” e infatti dagli che mi torna in testa) e un po’ mi secca. E non ha esattamente a che fare con il mio marcato lato maschile, caratterialmente parlando, che invece d’aspetto sono spudoratamente femminile. Ha a che fare con alcune sfumature che proprio non vorrei fossero evidenti. E qui mi diventa ancora più confusa la cosa, perchè non capisco se mi piace che questa persona le abbia notate o se invece non mi piaccia. E, ugualmente, non capisco la persona che me le ha dette.

La terza questione, invece, ha a che fare con una vecchia storia. Cioè non è proprio una storia, una mezza storia direi. Non è il caso di fare un mistero qui della circostanza che io abbia avuto uno strafottio di uomini (ho avuto anche donne ma 很少) e per strafottio intendo un numero che non sono in grado di ricostruire. E sono sempre stata trasversale, come in tutto nella mia vita, per età, aspetto fisico, ceto sociale, cultura ed anche abitudini sessuali. Ho avuto, certamente, storie importanti e durature, ma anche molto altro.

Nell’altro è compreso quello che 5 anni fa era ancora un ragazzo ed oggi è un uomo, che è durato all’incirca 4 incontri in un mese. Poi, siccome sono fatta un po’ così, è bastato un alito di vento perchè io mi infastidissi e lo liquidassi in un attimo. Però quel ragazzo a me piaceva molto, mi piaceva sotto moltissimi aspetti. Perchè mi somigliava e forse questo mi infastidiva pure. E a raccontare come l’avevo conosciuto, mi rendo conto che potrebbe proprio apparire strano. Perchè il ragazzo era stato scelto per me da un uomo, perdutamente innamorato di me, come dono d’amore e segno di assoluta devozione. Lo so lo so, sembra una cosa folle, ma non è proprio il caso di addentrarci in questa storia.

Sta di fatto che, dopo diversi mesi, durante i quali non ho mai risposto ai messaggi del ragazzo che, gentilmente ma senza troppi fronzoli nè cagate lacrimose, mi faceva gli auguri, mi salutava e blablabla, ad un certo punto ho fatto intervenire l’indulto e ho ricominciato a rispondergli.

Per quattro anni non ha mai smesso di scrivermi, di raccontarmi come nel frattempo si evolvesse la sua vita, di inviarmi sue foto nelle quali mi mostrava i suoi cambiamenti fisici e si trasformava da bel ragazzo in bell’uomo, consapevole della mia particolare sensibilità alla bellezza, di parlarmi di letteratura ed arte, di narrarmi delle sue storie sentimentali mai soddisfacenti e di chiedermi di potermi rivedere.

Nell’ultimo anno le nostre comunicazioni si sono intensificate e più di una volta si è trovato sotto casa mia per lavoro e non ha mai smesso di chiedermi un incontro anche solo per un caffè. Che ho sempre negato.

Ora mi trovo dinanzi a questo dilemma, che, comprendo, per molti sarebbe di facile risoluzione, ma non per me. L’uomo che è diventato a me piace davvero molto, perchè è la migliore evoluzione possibile del ragazzo che era e che già mi piaceva. Quindi, ovvio sarebbe che io lo rivedessi. Eppure non mi va. E non so e non capisco perchè. E più ci penso e meno ne vengo a capo. Perchè le parole che scambio con lui, che, in fondo, mi conosce meglio di tanti altri e di me sa taluni aspetti più nascosti, mi sono immensamente piacevoli. E’ bellissimo dialogare con chi sa cogliere ogni sottile sfumatura ed ogni vago accenno magari a qualche personaggio di uno dei libri che amo e, nel contempo, sa amare le mie più becere e camionistiche imprecazioni. Ma è una cosa che devo risolvere, perchè odio la stasi e prima o poi devo uscirne.

Infine mi piacerebbe poter dire ad una persona (specifica in questo caso) che ama innamorarsi e che ama corteggiare, per il mero fine e piacere di farlo, che questo è un gioco che conosco a memoria ed al quale non ho mai perso. 你对我不了解得太好, 所以小心。

 

Quando domani rileggerò ciò che ho scritto, con il cervello funzionante, forse capirò cosa devo fare. Per questo ho scritto tutto il pappone di cui sopra ora che funziono solo a metà. Facciamo anche un quarto, và.

P.S. il 普通话 non può essere tradotto con google che scrive solo cagate.

 

Traffici illeciti di ironia

Mentre mi addormentavo pensavo a come e quanto scarseggi sempre più l’ironia.

Anche là dove non te lo aspetteresti, ti ritrovi dinanzi persone dallo sguardo vacuo, fisso o un po’ torvo, perplesso o assolutamente smarrito. E ti domandi dove sia finita, dove l’abbiano nascosta l’ironia. O magari, pensi, non ne hanno mai avuta. Boh. Non sto nemmeno a citarla l’autoironia, che poi è solo l’altra faccia della stessa medaglia. Di nuovo: boh.

L’ultima immagine che ricordo è quella di una figura indistinta, seminascosta dietro un angolo, mentre qualcuno furtivamente le si avvicina, volto scavato, occhiaie bluastre e sussurra: “Aò ce l’hai mpo’ de ironia?” e velocemente i due si scambiano qualcosa che sparisce, occultata in qualche tasca.

Poi tutto si fa più confuso. Pezzi di immagini che si intersecano.

Intercettazioni telefoniche ed ambientali che rintracciano partite di ironia pronte per lo smercio.

E poi i servizi segreti che creano falsi dossier per insabbiare vicende e scandali. Come quello sulla Banda dell’Ironia, che pare che per un certo periodo i due abbiano cooperato, per far sparire le tracce di certi misfatti: gente che s’è lasciata scappare un risolino o una battuta e poi l’hanno trovata misteriosamente impiccata. E senza contare il coinvolgimento del Vaticano, nelle cui banche pare vada a finire tutto il traffico di ironia. Anzi, è proprio lì che avviene il riciclaggio: l’ironia arriva, viene trattenuta, viene ripulita e, al momento giusto, la si fa uscire sotto forma di “fede”.

La gente ha paura. Ogni giorno si legge di sempre più frequenti perquisizioni della Guardia di Finanza. Piombano in casa, dicono che hanno ricevuto segnalazioni circa la coltivazione di ironia in qualche piccola serra casalinga o magari direttamente sul balcone e sequestrano tutto.

Chi ne ha ancora un po’ cerca di nasconderla ovunque. Non è più consentito l’uso personale, nemmeno in piccolissime quantità.

Anche io ho paura, perchè ne ho e ne faccio uso e mi domando dove metterla, dove occultarla, senza farlo sapere in giro, nessuno deve sospettare. Mi cascassero i denti se mi faccio scappare un ghignetto, una parola. Seria ed estremamente politically correct! Guai ad apparire diversa. Ma dove la nascondo?

Poi mi viene in mente mamma, che metteva il brillocco di fidanzamento nei bicchieri di cristallo della vetrinetta in sala. Diceva: “Così si confonde e non lo trovano”.

Ecco! Ho quel servizio di tumbler alti anni ’70 che mi ha regalato un mio amico quando sono venuta ad abitare qui. Sono raffinati, in cristallo finissimo e con il fondo colorato. Di sicuro lì dentro nessuno la troverà.