Che ne sai tu dell’inferno?

C’è un pudore che accomuna tutti quelli che.

E’ un pudore che cela con il silenzio o nasconde dietro parole altre, urlate tra il riso e l’atroce. O con una leggerezza acerba appena sussurrata tra la delicatezza e il muro.

E’ il pudore di dolori che non escono allo scoperto e non svelano il segno turpe degli innocenti condannati.

Dolori che non sono soffitti da guardare e hanno l’odore delle piaghe, del sangue, del corpo vivo. Dolori di anni di notti in bianco, di gemiti continui, di urla da tapparsi le orecchie e sognare di essere sott’acqua. Dolori di membra lasciate senza nutrimento per mesi e mesi e mesi, dolori di tagli inferti, dolori di violenza cieca, sorda, muta di colpi e colpi e ancora e ancora. Dolori di segregazioni e schiavitù e ricatti. Dolori di innocenza rubata e violata, strappata, lacerata senza pietà negli occhi sbarrati o serrati a non dover guardare.

E’ anche il pudore di chi per un attimo quasi eterno li ha finalmente chiusi gli occhi, senza poter sentire il pianto di chi attorno si dispera per l’imminente perdita. E poi li ha riaperti, tornando da un altrove senza memoria. Tornando per qualche strana determinazione senza un perchè.

C’è uno straordinario pudore che profuma di pulito, di biancheria stesa al sole e di pelle dolce di bambino.

Chi ha quel pudore si riconosce dall’odore, senza bisogno di dire. Lo sa.

Chi ha quel pudore spesso sospira sollevandosi il petto nella vaga insofferenza. Per gli sciorinamenti di litanie o polpette dolciastre di parole troppo sospinte e ripiene come caramelle fasulle.

Ma non dice. Perchè la vita gliel’ha già insegnato che l’inferno non si spiega e che il sapore più buono è quello del candore di un sorriso.